Vibe coding: quando programmare diventa una questione di atmosfera

Negli ultimi anni la parola “vibe” è uscita dai confini della musica e dei social per arrivare anche nel mondo del codice. Il cosiddetto “vibe coding” non è una tecnica precisa né una scuola di pensiero strutturata, ma un modo di intendere la programmazione come espressione creativa. È un approccio che sposta l’attenzione dal codice perfetto al codice che comunica qualcosa, che trasmette sensazioni o che semplicemente “funziona bene” perché riesce a evocare un’emozione, un’atmosfera, una vibrazione.
Chi pratica vibe coding non si concentra tanto sulle regole o sulle ottimizzazioni, ma si lascia guidare dall’ispirazione del momento. È una modalità fluida e intuitiva, simile a quella con cui un musicista improvvisa o un artista digitale crea una forma visiva partendo da un’idea vaga. Spesso questo tipo di approccio trova spazio nei progetti più sperimentali, come la musica generativa, i videogiochi indipendenti, le installazioni interattive o le esperienze web immersive, dove il codice diventa parte integrante dell’estetica.
Per molti giovani sviluppatori, il vibe coding è anche un modo per ritrovare piacere e libertà nella programmazione, allontanandosi per un attimo dalla pressione della produttività o dalle convenzioni del lavoro tecnico. Non si tratta di scrivere codice per un cliente o per ottenere un risultato perfetto, ma per entrare in sintonia con ciò che si sta creando. Alcuni lo descrivono come uno stato di “flow”, in cui tutto scorre in modo naturale e le idee si trasformano in righe di codice senza sforzo apparente.
Sui social, in particolare su TikTok e YouTube, il termine è diventato una tendenza che unisce estetica e codice: video di programmatori che creano con calma, accompagnati da musica lo-fi o ambient, luci soffuse e una forte attenzione al ritmo visivo. Il messaggio è chiaro: programmare può essere un’esperienza sensoriale e rilassante, non solo un esercizio logico.
Tuttavia, il vibe coding presenta anche alcuni punti deboli. L’eccessiva spontaneità può portare a trascurare la struttura e la manutenzione del codice, rendendolo difficile da aggiornare o condividere con altri. In un contesto professionale, questo approccio rischia di rallentare i processi o generare errori difficili da individuare. Inoltre, la ricerca dell’atmosfera perfetta può diventare una forma di procrastinazione mascherata: si passa più tempo a curare l’estetica dell’ambiente di lavoro che a risolvere i problemi concreti del progetto. Anche la mancanza di regole precise può far perdere di vista l’obiettivo tecnico, portando a risultati affascinanti ma poco funzionali.
In fondo, il vibe coding funziona meglio come complemento, non come sostituto del metodo tradizionale. Serve equilibrio: sapere quando seguire l’intuizione e quando invece fermarsi a ragionare con rigore. In questo senso, rappresenta un invito a riscoprire il lato umano del digitale, ricordando che dietro ogni linea di codice c’è comunque una persona, con le proprie emozioni, intuizioni e desiderio di creare qualcosa di unico.
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