Terre rare: la dipendenza invisibile che guida l’economia globale

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Dietro ogni smartphone, auto elettrica e pannello solare c’è un gruppo di elementi chimici dai nomi quasi poetici: neodimio, lantanio, ittrio. Sono le cosiddette “terre rare”, risorse che, nonostante il nome, non sono così scarse nella crosta terrestre. Il vero problema è la loro estrazione: costosa, complessa e ad alto impatto ambientale. Questa apparente contraddizione — abbondanza geologica ma scarsità industriale — ha trasformato le terre rare in una delle leve più sensibili delle strategie geopolitiche e industriali del XXI secolo.

Le terre rare sono indispensabili per la transizione energetica: rendono potenti i motori delle auto elettriche, migliorano l’efficienza delle turbine eoliche e fanno brillare gli schermi dei nostri dispositivi. Ma l’estrazione e la raffinazione di questi elementi è fortemente concentrata in poche aree del mondo, soprattutto in Cina, che da sola controlla oltre il 60% della produzione globale. Questo dominio ha fatto delle terre rare uno strumento di potere economico e diplomatico, capace di influenzare intere catene di approvvigionamento. Non a caso, quando Pechino annuncia restrizioni all’export, i mercati globali tremano.

Le industrie occidentali, spinte dal rischio di dipendenza, stanno cercando alternative. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea stanno riaprendo miniere dismesse e investendo nel riciclo dei materiali tecnologici. Tuttavia, estrarre o recuperare terre rare in modo sostenibile è tutt’altro che semplice: le miniere producono enormi quantità di scorie tossiche e i processi di purificazione richiedono sostanze chimiche altamente inquinanti. In Norvegia, ad esempio, è allo studio un progetto di estrazione sottomarina, ma le organizzazioni ambientaliste temono danni irreversibili agli ecosistemi marini.

Una curiosità poco nota è che anche la sabbia di alcune spiagge contiene tracce di terre rare, ma in concentrazioni talmente basse da renderne l’estrazione improduttiva. Un’altra riguarda il Giappone, che nel 2018 ha scoperto enormi giacimenti di terre rare nei fondali del Pacifico, a oltre 6.000 metri di profondità: un tesoro potenzialmente sufficiente per rifornire il mondo per secoli, ma ancora inaccessibile con le tecnologie attuali. E c’è persino un aspetto spaziale: la NASA e l’Agenzia Spaziale Europea stanno studiando la possibilità di estrarle da asteroidi, dove potrebbero trovarsi in forma più pura e facilmente recuperabile.

La sfida delle terre rare non è quindi solo economica, ma anche etica e ambientale. La domanda crescente, alimentata dall’espansione dell’intelligenza artificiale e delle energie rinnovabili, rischia di spingere verso nuove forme di sfruttamento e inquinamento. I Paesi più lungimiranti stanno capendo che la vera ricchezza non è nel possesso delle miniere, ma nella capacità di creare tecnologie che ne riducano l’uso. Riciclare, progettare materiali alternativi e promuovere un’economia circolare potrebbe essere la via per spezzare questa dipendenza invisibile che lega il progresso tecnologico a una catena geologica fragile.

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