Perché gli strumenti contro il femminicidio faticano a funzionare in Italia

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In Italia il fenomeno del femminicidio continua a rappresentare una ferita profonda e ancora aperta. Nonostante le leggi, i piani e gli interventi messi in campo negli ultimi anni, la sensazione diffusa è che si agisca più per rimediare alle emergenze che per prevenirle davvero. Troppi interventi arrivano quando la violenza è già esplosa, invece di riuscire a intercettarla nelle sue fasi iniziali. In altre parole, si reagisce dopo l’aggressione, ma raramente si costruisce un sistema capace di impedirla.

Le norme più severe e le procedure accelerate introdotte negli ultimi anni, come quelle previste dal cosiddetto “Codice Rosso”, rappresentano un passo avanti importante. Tuttavia, senza risorse adeguate, tempi operativi chiari e responsabilità ben definite, il rischio è che restino solo buone intenzioni. Le misure di contrasto spesso non dialogano tra loro, restano frammentate tra diversi livelli istituzionali e perdono efficacia. Anche quando una donna trova il coraggio di denunciare, le risposte delle istituzioni non sono sempre tempestive o coordinate, generando sfiducia e senso di abbandono.

Un altro nodo critico riguarda la raccolta e la gestione dei dati. In Italia non esiste ancora un sistema unico e completo che permetta di seguire tutto il percorso della violenza, dal primo contatto con i servizi fino all’esito delle misure di protezione. Senza dati precisi e aggiornati, è difficile capire se le politiche funzionano davvero, se intercettano i segnali di rischio o se arrivano troppo tardi. La mancanza di monitoraggio rende impossibile valutare con obiettività quali strumenti siano davvero efficaci e dove invece serva intervenire.

La formazione di chi lavora sul campo è un altro punto delicato. La legge prevede percorsi formativi specifici per Forze dell’Ordine, magistrati e operatori sanitari, ma nella pratica la qualità e la diffusione di questa formazione variano molto da territorio a territorio. Senza competenze realmente specialistiche, il rischio è che il pericolo venga sottovalutato, che le misure urgenti tardino o che si dia più peso agli aspetti burocratici che alla tutela immediata della persona. È una situazione che alimenta il senso di isolamento di chi denuncia e, in alcuni casi, la percezione di non essere creduta.

Non meno importante è la questione economica. Molte donne non riescono a lasciare situazioni di violenza perché dipendono finanziariamente dal partner. Le politiche di contrasto dovrebbero quindi puntare anche sull’autonomia economica, favorendo l’accesso a sussidi, alloggi sicuri, percorsi di formazione e reinserimento lavorativo. La libertà reale passa anche dalla possibilità di mantenersi in modo indipendente.

C’è poi un aspetto spesso trascurato: i figli che vivono in contesti di violenza. I minori che assistono a episodi di maltrattamento o ne subiscono le conseguenze portano ferite psicologiche profonde e sono a rischio di replicare, da adulti, lo stesso schema di violenza. Proteggere i bambini e le bambine deve essere parte integrante di ogni politica contro il femminicidio, con interventi tempestivi e percorsi di sostegno dedicati.

Infine, è essenziale valorizzare il ruolo delle associazioni e dei centri antiviolenza. Queste realtà, che operano quotidianamente sul territorio, possiedono un’esperienza diretta e un legame con la comunità che nessuna istituzione può sostituire. Quando le loro voci non vengono ascoltate, le misure rischiano di restare astratte, lontane dalla realtà concreta delle persone che cercano aiuto.

Per contrastare davvero il femminicidio non basta una legge. Serve una strategia complessiva, che unisca prevenzione, protezione, formazione, cultura e autonomia economica. Ma soprattutto serve una responsabilità condivisa: quella di uno Stato che protegge, di una società che ascolta e di una comunità che non si volta dall’altra parte.

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